Forse mi sono ricordato ciò che avevo dimenticato l'altro giorno. Si trattava di una riflessione sulla vita del giornalista che scrive per un quotidiano.
Anche se l'idea "geniale" è sfuata, provo lo stesso ad abbozzare un ragionamento con un capo e una coda su questo fantastico argomento.
A prima vista sembra che il giornalista si svegli alla mattina senza sapere ancora cosa gli succederà nel corso della giornata e se per qualcuno ciò può rappresentare un motivo d'angoscia, per altri invece non è altro che un senso di liberazione.
Alla lunga ci si accorge che una routine esiste. Si tratta di una routine mai uguale a sé stessa. Gli appuntamenti fissi si alternano alle incognite della cronaca o della politica. Ogni giorno al suono della sveglia tutti sappiamo già che mangeremo tre volte, ma se la colazione è sempre (o quasi) identica, pranzo e cena sono vari e, a volte, possono essere sorprendenti. La vita del giornalista è così: alle volte può essere sorprendente, anche se non ha mai fine. Neppure quando arriva a casa.
Quando attraverso i vetri della finsetra mi capita di sentire una sirena, l'istito è di mettere i pantaloni e inseguirla, oppure di chiamare la centrale operativa per sapere cosa è successo e, eventualmente, urlare in preda a una crisi isterica "Fermare le rottive, fermate le rotative".
(un amico che non vedo ormai da troppo tempo, sostiene che almeno una volta nella vita questa frase vada detta).
Fare il giornalista è un privilegio, ma a volte si trasforma in una condanna. Comunque sia, per usare una frase banale e logora, mi permetto di dire: "Sempre meglio che lavorare".