26.4.06

Non creiamo mostri.

Non resisto, questa mail che ho appena ricevuto è troppo bella - o brutta, dipende dal punto di vista - per non essere commentata, anche perché mi spinge a una riflessione.

Come gia' parlato al telefono, riusciamo a fare un'articolo (meglio: un'intervista) a PINCO PALLINO,
campione Italiano 2006 allievi di BIGLIE DI CRISTALLO ??
Attendo pregiata Tua per seguito.

buona giornata

CAIO SEMPRONIO


Non amo ricevere comunicazioni formali, ma capisco che alle volte, nel dubbio, qualcuno preferisca peccare in un senso piuttosto che rischiare di offendere l’interlocutore. Premesso che non mi sarei offeso se mi avesse scritto una cosa del tipo: "Possiamo fare un'intervista a Pinco Pallino come avevamo stabilito? Ciao, Caio Sempronio", quello che mi colpisce è il mix che fa chi scrive.
Il formalismo con cui tenta di scrivere è rovinato dalla forma stessa con cui è scritta la mail.
Quasi quasi, la cosa che meno disturba è la chiusa Attendo pregiata Tua per seguito. Tutti quegli spazzi poi, uniti alla maiuscola di tua, mi confondono, ma pazienza. Aspetta una mia risposta? gliela darò.

Ciò che è un capolavoro, è l’incipit Come gia' parlato al telefono. Mi chiedo: che fine ha fatto l’abusata e logora forma riconosciuta a livello universale come da colloquio telefonico intercorso? Se le cose vanno fatte bene, le si facciano tali. In questi casi - mi viene da dire - inutile l’originalità.

Vogliamo parlare poi di riusciamo a fare un'articolo (meglio: un'intervista)? Visto che mi suggerisce il mio lavoro – e non è il primo caso - , mi viene da dire “no, non ci riusciamo”. Poi penso a quel povero Pinco Pallino e alla sua mamma orgogliosa per il titolo italiano allievi e dico che loro non c’entrano niente con questa mail e che un articolo possiamo anche farlo.
Per quanto riguarda l’intervista, beh, forse per un campionato allievi è un po’ troppo.
Su quest’ultima affermazione è necessaria una precisazione.
Credo che per i ragazzi lo sport debba essere prima di tutto divertimento. Quando diventa competizione spinta non va più bene. Mi sono accorto che gli adulti mettono troppa pressione ai giovani, giovani che si sentono obbligati a vincere e sono sottoposti a stress eccessivi e immotivati. Uno stress che dovrebbero avere, magari - e qui mi riallaccio al post precedente sulla scuola –, nello studio.
Con un intervista darei agli adulti un altro motivo per credere che Pinco Pallino diventerà un campione, invece, nonostante il titolo, ha poche chance di poter vivere grazie allo sport professionistico.
Non creiamo mostri. Un articolo basta e avanza.

Non sanno neppure copiare.

Non sanno neppure più copiare. Anzi, non gli interessa neppure più. O forse è che nella scuola di oggi, gli studenti non ne hanno neppure bisogno, di copiare.

Comunque sia, il compito in classe di oggi che la professoressa di matematica ha dato alla classe dei due ragazzi a cui faccio sostegno mi ha gettato in un nuovo mondo. Un mondo che è folle anche per quello studente medio-mongolo che ero io ai tempi della scuola.

Punto primo, per questo sparuto gruppo di allievi di seconda media è difficile anche mettere le crocette. Ciò che è più grave è che per come era strutturato il quiz bastava leggere le domnde successive per trovare le risposte ai quesiti precedenti. Non era neppure necessario studiare.

Punto secondo, se le due ore di compito sono divise dalla ricreazione e l'insegnante permette di usufrire del quarto d'ora di pausa, come minimo io mi informo su come rispondere alle domande. Loro no. Magiano il panino o la merenda, giocano a pallone, cazzeggiano nella più totale tranquillità e alla campanella rientrano in classe per riprendere esattamente da dove avevano lasciato quindici minuti prima e con le medesime nozioni di quando erano usciti.
Non dico guardare sul libro, ma almeno chiedere ai compagni, consultarsi vedere se si può trarre vantaggio in qualche modo dalla pausa, questo dovrebbero farlo. Me lo aspetto. Invece no. Niente di niente.

Ok, non copi? Siamo giunti al livello che anche gli studenti sono integerrimi? Non ci credo, ma posso fare finta di crederci. Quello che non capisco - e non accetto - è il fatto che di fronte a una risposta multipla, non provino neppure a mettere la X. Alla peggio la probabilità di indovinare è una su quattro, non una su un milione. Cazzo, provaci almeno.

Mi sono sbagliato

L'attentato di Dahab mi riporta in un mondo, quello del Sinai, dove ho vissuto per quasi sei mesi. Durante il periodo trascorso a Sharm, pensavo che quel triangolo rovesciato posto tra il Mar Rosso e il Mediterraneo fosse il luogo più sicuro della terra. C'erano interessi sia occidentali sia orientali e gran parte delle strutture si diceva fossero di proprietà di un certo Bin Laden.
Chi mai avrebbe avuto la scelleratezza di mettere in crisi il turismo locale con un'attentato? In questa domanda retorica erano racchiuse tutte le mie certezze, poi sono arrivati i morti. Prima a Taba, poi a Na'ama Bay e all'Old Market, infine a Dahab.
Mi sono sbagliato, purtroppo.

25.4.06

Di nuovo in immersione

L’ultima immersione risaliva al settembre del 2004. Non era mai passato tanto tempo tra un tuffo e l’altro, ma ora il conto è di nuovo azzerato.
Erano tante le incognite di questa prima immersione del 2006. Su tutte a preoccuparmi c’era la questione della muta. Durante gli ultimi 19 mesi la mia forma è cambiata e non posso dire che l’aumento di massa sia dovuto alla muscolatura più robusta. Rispetto all’ultima volta, credo che mi stesse un po’ più stretta, ma la cerniera si è chiusa senza protestare. Pensavo che con indosso una 7 millimetri, la shorty e il nuovo strato protettivo naturale autoprodotto nel corso di due inverni avrei dovuto aumentare notevolmente la pesata e invece, anche qui la sorpresa, 4 chili di piombo sono bastati e forse sono anche avanzati.

Anche gli erogatori hanno superato il test, ma non lo hanno fatto a pieni voti. Se per un’immersione di prova a meno di 10 metri non hanno dato problemi, le bollicine che ho visto uscire dal primo stadio mi portano a dubitare della loro perfetta funzionalità. Magari basta ingrassare il filo della vite di protezione da cui era generata la perdita, ma magari è qualcosa di più serio. Necessitano un check. Un controllino, infine l’avrebbe bisogno anche l’aggancio a baionetta del jacket.

Anche se sono un sostenitore della muta umida - perché la muta stagna toglie il contatto con l’acqua e quindi, dal mio punto di vista, viene a mancare uno dei motivi per cui ci si immerge -, quando la temperatura è bassa come in questo periodo dell’anno, mi chiedo perché non ne ho mai comprata una. Con un termoclino ogni metro e mezzo, ci siamo ritrovati a 9 metri di profondità con appena 11 gradi centigradi di temperatura. Dopo meno di un quarto d’ora, quando le mani e i piedi hanno cominciato a perdere la sensibilità e la voglia di aprire il riscaldamento autonomo si faceva via via più concreta, ho rimesso in discussione tutti i miei principi e ideali. Una stagna ci sarebbe stata bene. Proprio bene.
Un po’ per il freddo, un po’ perché il paesaggio non era dei più vari ed entusiasmanti (spirografi, oloturie, fango, qualche granchio, alcune medusa e dei cavallucci marini assonnati), nonostante la profondità esigua, dopo appena 29 minuti abbiamo posto fine all’esperimento. Non prima però di esserci messi a pancia in su a guardare salire in superficie le nostre bolle.
Vedere materializzarsi il proprio respiro è sempre uno spettacolo impagabile e rilassante.

21.4.06

Io, Toni e Claudio Magris. Un trio impossibile.

Toni è un amico spagnolo che adora Claudio Magris. Ieri lo scrittore triestino si trovava a un convegno sul filosofo Carlo Michaelstaedter, vedendolo gironzolare senza meta e senza pace con la sua borsa di pelle tra le mani, ho pensato di informare via sms il mio amico che se aveva qualche curiosità o qualche domanda da porre a Magris potevo fargli da intermediario, tanto - per dirla terra terra - si stava rompendo le palle.
Anche se la risposta del mio amico poeta è arrivata fuori tempo utile ("Wow! Robale alguna prenda de ropa. Luego nos las ponemos, a ver si nos pega algo!"), ho promesso di scrivergli in spagnolo quello che è successo.
So che il mio castigliano scritto non è affatto perfetto, ma per lui, ancorché massacrata, la lingua che ho usato è più comprensibile della nostra.


Nunca habia visto de persona a Magris, siempre e solo le vì por fotografia, entonces ayer no estaba seguro fuise a el. No me le imaginaba tan alto, asì que le miraba y me preguntaba: "¿es el?". Tras las otras cosas, mi feina consistiera en ponersele algunas preguntas: de algun modo tenia que solver mis dudas.
Tenia miedo, no puedes ir de una personalidad como a el i preguntarsele si por caso es a Claudio Magris. Te lo imaginas... tienes que ser jilipolla. Pues… esperé que algo passe y algo pasò. Llegò a mi jefe :
- ¿Ya has enetervistado a alguien?
- No, estan todos atras del banco ablando desde hace dos horas…
- …cerca de la machina de las bebidas està Magris.
- ¿De verdad? ¡entonces està! Voy ahora mismo.
Por no equivocarme se le pido a una de las hostess si le ha visto.
- Estaba aquì, espera… mira, està allà.
No me habia equivocado, aquella persona flacha y alta con la cara cansada era Magris.
Desde el rincon de una puerta escucha los vaniloquios de Vittorio Sgarbi (un famoso critico de arte italiano). Me parece insensible molestarle. Me pongo a un metro de el y vuelvo a esperar.
Es ahora que le escribo el sms a Toni.
Acabo enviar y Magris sale de la conferencia.
- Desculpe, soy BLABLABLA, se le puedo preguntar unas cosas?
Magris me mira perdido. Tampoco se parece que sepa su nombre.
-Solo un minuto que tengo que llamar una persona.
Saca su mobil de la maleta y se sienta sobre la escalera de marmol.
Como acaba su telefonada se le pido lo que tenia que pedirle y me contesta sin demaciada originalidad. Aunque la culpa de esa sterilidad - tengo que reconocerlo - ha sido de las pregutas, Magris no tenia mucha gana de hablar. Le he entendido cinco minutos despues cuando mi jefe, se le pidiò unas curiosidades sobre el echo de un relato. Se le contestò que no se le recordaba, que tenia que mirar sus apuntes.
…estaba cansado. Mucho cansado.

19.4.06

"25 kb di coccodrillo, grazie". "Sono 27, che faccio, lascio?"

“Scrivete quello che vi pare, ma non scrivete ipocrisie con giri di parole ed eufemismi. Non c’è bisogno che scriviate di me per compiacermi, tanto sono morto. Per una volta avete l’occasione di chiamare le cose con il loro nome senza rischiare querele perché tanto sono morto, stecchito.
In effetti, avrei preferito sopravvivervi, ma se le cose sono andate così, ora non ha più importanza quello che preferivo o quello che non preferivo”.

Alle volte provo a immaginare quali parole userebbero in redazione per scrivere di una mia eventuale prematura dipartita. Quanto spazio darebbero alla notizia dipende dalla mia fine. Se inaspettata e tragica - a meno di colpi di stato o elezioni - riuscirebbe a strappare anche un richiamo in prima pagina. Se annunciata - come quando giunge dopo una lunga malattia - rischierebbe invece di avere solo un paio di colonne di centro pagina nelle quali, in modo senza dubbio manierato, verrebbe fatta una selezione casuale degli eventi che hanno caratterizzato la mia esistenza e nei quali probabilmente non mi riconoscerei. Se poi mettessero anche una testina troverei quasi offensiva la cosa. Che tristezza la testina, piuttosto preferirei mi ignorassero.

Scriversi il “coccodrillo” non è facile. Ha un che di presuntuoso, ma senza dubbio sarebbe la soluzione ideale.
Voi da dove partireste per scrivere il vostro?
L’ideale sarebbe partire dalla fine, dall’evento che ci ha strappati al calore dei nostri cari, ma per ovvie ragioni non è possibile lasciarne uno del genere se non con gli spazi “da completare”.
Come si può scrivere il proprio coccodrillo ascoltando un pezzo così vivo come “Don’t let me be misunderstood” dei Santa Esmeralda a tutto volume?
Ecco, …ecco l’ispirazione.

“Evitiamo incomprensioni, Stebi è morto. È un fatto. E come lui stesso avrebbe detto con un filo d’ironia, gli dispiace. Lui però era fatto così, era incapace di rimanere a lungo in uno stesso posto. Poteva farlo, certo, ma soffriva. Magari tornava, ma di tanto in tanto sentiva il bisogno di andarsene e ora, dopo (…) anni, se n’è andato in modo definitivo.
Anche se presumeva che con la morte tutto sarebbe terminato, da agnostico qual era non c’avrebbe nesso la mano sul fuoco e si era quindi preparato per un eventuale viaggio nell’aldilà. Comunque sia andata a finire, è certo che in questa sua nuova ipotetica avventura, non sarà un turista qualsiasi. Come sempre ha fatto - per quanto possibile - cercherà di capire il contesto in cui si trova e magari di imparare qualche rudimento della ‘lingua’ usata dagli ‘indigeni’. Avrà con sé anche l’attrezzatura subacquea, nel caso ci fosse il mare o magari solo una pozza d’acqua in cui potersi tuffare e rilassare guardando salire – o scendere - le bolle.
Era uno spirito inquieto e anche se all’esterno poteva sembrare inattivo, come un vulcano ribolliva dentro.
Nessuno ha conosciuto lo stesso Stebi, perché come un camaleonte, il suo modo di essere e di sentire cambiava e si adattava alle situazioni. Come uno specchio rifletteva la personalità di chi aveva di fronte. Se vi è apparso interessante, voi eravate interessanti, se al contrario vi è apparso noioso significa che la noia vi accompagnava. Quando l’avete trovato simpatico, il merito è stato invece della vostra simpatia. Non s’imponeva; se non strettamente necessario.
Stebi è stato questo e tanto altro. Ognuno avrà un ricordo diverso di lui, quindi è inutile ripercorrerne la storia, perché non sarebbe mai abbastanza corretta. Tanto per evitare incomprensioni, Stebi è morto, che vi piaccia o no è così”.

Bah, non mi convince tanto. Più che un coccodrillo, qua e là, sembrano tanto le parole che potrebbe usare il prete nel corso del funerale. Faccio come il salumiere, ormai che è sulla bilanca, “Lascio”. Se non lo useranno al giornale, magari lo useranno davvero in chiesa. Un ricordo dell’estinto come questo, sono sicuro che farebbe anche meno danni di quelli che un prete preso all’ultimo momento potrebbe fare. Si, si, lascio.

12.4.06

Tra l'incudine e il martello.

Da un lato mi chiedo come sia stato possibile riuscire a sopravvivere per così tanti anni alla scuola, dall’altro mi chiedo come facciano gli insegnanti a non farsi venire un esaurimento nervoso alla settimana. Da qualunque punto la si guardi, la scuola mi appare un luogo di tortura.
Mentre i ragazzi sono costretti a seguire docenti che in molti casi e per diversi motivi non riescono a trasmettere la loro effettiva o presunta scienza, i docenti non hanno armi per farsi rispettare. Alcune armi, per la verità, i professori le avrebbero anche, ma a forza di usarle sono ormai spuntate.
Ai miei tempi …argh, questa affermazione che avevo giurato di non usare mai è il segno dell’inesorabile avanzare degli anni. Ai miei tempi, dicevo, gli insegnanti non avevano neppure bisogno di minacciare una nota per ottenere dei risultati. I miei compagni ed io sapevamo bene che la spada di Damocle pendeva sulle nostre teste e che bastava poco perché ci trafiggesse con conseguente cazziatone dei genitori.
Per farla breve, ogni comunicazione scolastica rappresentava uno spauracchio e un potenziale pericolo alla libertà individuale di ciascun alunno.
Oggi non è più così. Stamattina non sono riuscito a contare le volte in cui la professoressa ha detto a uno o all’altro dei ragazzi di prendere il libretto personale e scrivere “che l’alunno Tizio faceva confusione durante l’ora tal dei tali” o che “l’alunno Caio non aveva portato il quadreno” oppure che “l’alunno Sempronio era stato maleducato nei confronti dell’insegnante”.
Secondo me l’apoteosi del paradosso si raggiunge quando l’insegnante chiede allo studente di tirare fuori il libretto e lui risponde di non averlo per evitare la nota. Si innesca un circolo vizioso:

- Perché non hai il libretto?
- Perché l’ho finito.
- Perché non ne hai chiesto un altro alla segreteria?
- …
- Va bene, allora prendi il diario.


A questo punto allo studente non rimane altra via che quella di prende il diario. Qualsiasi cosa avesse fatto prima, ormai è passata in secondo piano. L’oggetto principale della comunicazione insegnante-famiglia diventa l’assenza del libretto personale. La madre o il padre prenderanno atto del fatto che il figlio è stato richiamato per una mera questione formale e con buona pace di tutti la questione termina li.
Questa è la sQuola.
Amen.

6.4.06

La scuola, uno strano ritorno.

La scuola è un trauma che ti porti dietro tutta la vita, non c'è dubbio.
Chi l'avrebbe detto che dopo tanti anni ci sarei tornato. Anche se la mia posizione non è più quella dello studente, rimettere piede in un'aula mi ha fatto una certa impressione. Appena ho varcato la porta, ho rivissuto la stessa angoscia vissuta allora quando, a causa delle probabili interrogazioni o in vista di un compito in classe, impreparato com'ero dormivo le mie notti in modo agitato.
Per una di quelle situazioni che vengono definite casualità del destino, mi sono ritrovato - inaspettatamene - ad accettare la proposta di sostituzione di un insegnante in una scuola media. Non ho neppure avuto il tempo per riflettere, serviva subito e ho dato la mia disponibilità.
Suona paradossale, ma adesso c'è un gruppo di preadolescenti che si rivolge a me dandomi del lei e chiamandomi profesore. E' una posizione che non sento mia perché non ho mai pensato di intrapprendere questa carriera. All'università non ho mai finalizzato il piano di studi all'insegnamento come invece facevano molti, ho sempre pensato d'essere inadeguato e ho preferito coltivare le materie interessanti a quelle utili.
Fare l'insegnante di sostegno sta a metà strada tra i banchi e la cattedra e mi permette di avere uno sguardo particolare sull'istituzione scolastica. In tre giorni mi sono già beccato una gita, un consiglio di classe e un ragazzo sospeso. Se queste sono le premesse... avrò di che imparare in qusti due mesi.